Ti racconto il mio parto #16

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Sono il papà di Matteo (11) e Noah (8). Quando è nato Matteo avevo 34 anni ed onestamente non sapevo niente su come affrontare la paternità. All’epoca, nel 2012, esisteva già una copiosa bibliografia sul parenting, sul ruolo maschile durante la gravidanza e come assistere il proprio partner. Accadde tutto così velocemente che non ebbi l’energia di entrare in quel mondo ma a dire il vero, a distanza di anni, ammetto che la spiegazione era un’altra. Sono cresciuto in una società dove i ruoli erano ben definiti, la maternità è una cosa da donne, l’uomo deve occuparsi degli aspetti finanziari, di provvedere alle necessità della famiglia. Mia moglie, che all’epoca non parlava italiano ha avuto la fortuna affrontare la gravidanza in una città come Bologna, dove la sanità ed il percorso prenatale è stato impeccabile. È come entrare in una catena di montaggio dove esami, controlli, risoluzione di eventuali problemi, sono monitorati costantemente con professionalità (è stato così nel 2012 e nel 2015, ndr). Il grosso problema fu la barriera comunicativa. Il personale medico e sanitario in generale è sempre stato di alto livello professionale ma pochissimi dei medici ed infermiere incontrati, conoscevano l’inglese. Forse la situazione è diversa adesso ma all’epoca, solo in determinati centri sanitari erano disponibili dei mediatori culturali, nei canali ufficiali degli ospedali, è sempre stato un forte limite.

A distanza di anni ho il rammarico di non aver supportato abbastanza mia moglie in quella fase che per una donna è molto complessa. Vorrei però dividere la colpa con la società in cui viviamo. In quel periodo lavoravo per una piccola azienda a conduzione familiare dove era impensabile chiedere dei permessi per accompagnare il partner ad una visita. Erano discussioni infinite, chiamate sul cellulare anche se in permesso, stress a non finire, traducibile con il mobbing. Nel 2012 non esisteva nemmeno la legge che oggi garantisce ai neopapà di disporre di giorni di ferie retribuiti. Ricordo ancora il giorno in cui mia moglie mi chiamò per dirmi che durante l’ultimo controllo, avevano deciso di ricoverarla per un cesareo anticipato. Dovevo correre in ospedale. Anche in quell’occasione l’ennesima discussione con il titolare, avrei dovuto lasciare una riunione “importante”.

Oggi esiste una sensibilità maggiore attorno al ruolo dell’uomo nella famiglia. Nel 2013 il 19% dei padri usufruiva del congedo parentale, nel 2021 la percentuale è salita al 57%. Dopo la nascita del mio secondo figlio Noah, decisi che non potevo commettere gli stessi errori, non potevo essere relegato al ruolo “standard” di padre previsto dalla società. Giocherellare un po’ la sera con i figli quando torni dal lavoro stravolto, saltare tutte le riunioni di scuola (roba da donne) e dedicarsi ai figli nel weekend.

Non volevo questo. Ho impresso nella mente il giorno in cui andati dal mio ex capo a comunicare che avrei usufruito di sei mesi di congedo parentale retribuito al 30%. Mi guardò meravigliato chiedendomi, “ma tua moglie è malata? Che problema c’è?”. Il problema c’era ed era gigante. Come dice Maria Montessori, i primi sei anni di vita di un bambino sono quelli che formeranno l’uomo del futuro. Che ruolo volevo avere in quegli anni fondamentali? Andai avanti con la mia scelta consapevole che avrei dovuto reinventare la mia carriera, fare scelte difficili mantenendo il focus sull’obiettivo: svolgere un ruolo più attivo in famiglia e permettere a mia moglie, che aveva sacrificato la carriera per dedicarsi ai figli, di ritornare nel mondo del lavoro.

Ricordo ancora il primo giorno in cui andai alla ludoteca di Salaborsa a Bologna, un lunedì mattina con Noah che aveva pochi mesi. C’era un playdate ed ero l’unico papà. Una mamma che conoscevo venne da me per chiedermi se mia moglie fosse malata. Insomma, come mai un papà il lunedì mattina era ad un playdate? Mi colpì perché quell’osservazione veniva da una donna. Se non è normale vedere dei papà rappresentati di classe, se non è normale vedere dei papà al parco con i figli, se non è normale che un papà vada ai colloqui con gli insegnanti, tutto questo si ripercuote sul concetto di “giusto” e “sbagliato” che la società metabolizza.

Fare scelte “controcorrente” non è stato per niente facile. Rimpianti? Nessuno. Difficoltà? Tante. Soddisfazioni? Moltissime.

AMINa ODV

La nostra missione è quella di promuovere un parto consapevole, rispettato e positivo in Italia e nel mondo. Partiamo dal presupposto che al momento molte donne sono vittime di violenza ostetrica, oppure mancano di accesso ai servizi di assistenza di base. Attraverso attività di sensibilizzazione e di cooperazione allo sviluppo, AMINa mira a promuovere una diversa cultura del parto, che valorizzi le differenze e consideri partoriente e nascituro come soggetti e non come oggetti dell’azione.

Immaginiamo un mondo in cui il parto venga affrontato con la giusta consapevolezza e possa essere un momento positivo e trasformativo per la partoriente ed il nascituro. Un mondo in cui la vita ed il venire al mondo vengano valorizzati, così come il rispetto delle diversità e del percorso di vita di ognuna/o.

Crediamo che la diversità sia una ricchezza; crediamo nelle doti innate della partoriente e del nascituro nel momento del parto; crediamo che questo debba essere affiancato dalle opportunità offerte dalla medicina e che la nascita dovrebbe essere al centro di ogni agenda politica poiché riguarda l’intera umanità e non dev’essere relegata al solo universo femminile. Crediamo che il parto possa essere una straordinaria esperienza trasformativa.

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